Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 4 dicembre 2018 – 23
agosto 2019, n. 21662
Presidente Bronzini – Relatore De Gregorio
Fatto e diritto
LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore, OSSERVA
quanto segue. La Corte d’Appello di Venezia con sentenza del sei
febbraio – dieci maggio 2014, in parziale riforma dell’impugnata
pronuncia, emessa dal locale giudice del lavoro -che aveva rigettato le
domande degli attori, volte ad ottenere il risarcimento dei danni
commisurati al costo del lavaggio degli indumenti da lavoro, forniti
dall’azienda, con asserite funzioni di dispositivi di protezione individuale
(D.P.I., da qui in avanti brevemente indicati come DPI)- accoglieva per
alcuni attori le domande e limitatamente a determinati archi temporali,
con la condanna della convenuta appellata S.p.a. VERITAS al pagamento
in favore dei predetti della somma mensile di 15,00 Euro, oltre accessori
di legge, mentre per il resto le domande venivano respinte, sia per
l’intervenuta prescrizione di tutti i diritti azionati, riferiti al periodo
anteriore al febbraio dell’anno 1991, sia perché doveva escludersi il
carattere di DPI degli indumenti forniti agli altri appellanti.
La Corte veneziana, inoltre, rigettava anche il motivo di appello
incidentale, con il quale la società aveva reiterato l’eccezione di duplice
giudicato di cui alle precedenti sentenze nn. 396/2002 e 660/2004,
pronunciate dal Tribune della stressa città lagunare, poiché tali pronunce
si erano limitate a dichiarare la nullità dei rispettivi atti introduttivi dei
due giudizi per difetto della editctio actionis, donde la loro inidoneità alla
formazione di giudicato in senso sostanziale rispetto alle successive
domande proposte con separato ulteriore ricorso, respinto poi nel merito
dalla sentenza n. 39 in data 20 gennaio / 31 marzo 2010, in seguito
appellata e parzialmente quindi riformata dalla pronuncia de qua.
Per quanto qui più direttamente interessa, la Corte territoriale aveva
disposto c.t.u. per stabilire le mansioni dei vari singoli appellanti al fine
di accertare il concreto rischio D.Lgs. n. 626 del 1994, ex art. 40.
La consulenza, secondo la sentenza d’appello, accertava in base alla
prodotta documentazione, le specifiche mansioni inerenti a ciascun
appellante, e rilevava che in generale le tute in dotazione non erano
destinate specificamente a proteggere la salute e la sicurezza dei
lavoratori, avendo soltanto lo scopo di tutelarli da un rischio generico di
imbrattamento, con l’eccezione tuttavia per l’abbigliamento fornito agli
operatori addetti ad interventi sulle tubazioni in cemento-amianto e a
quelli adibiti dal 1997 alla rete con indumenti ad alta visibilità (eccezioni
non riguardanti, invece, i lavoratori in parte qua rimasti soccombenti). Di
conseguenza, recepite le risultanze della c.t.u., secondo la Corte di
merito solo per questi casi, eccezionali, era ipotizzabile la rilevanza di
pertinenti DPI, con conseguente fondatezza della pretesa risarcitoria, da
inadempimento contrattuale, per il mancato lavaggio nei limiti temporali
considerati. Per gli altri lavoratori, invece, le domande andavano
rigettate.
Avverso la sentenza d’appello hanno quindi proposto ricorso per
cassazione AN.Al. egli altri 41 lavoratori nominati in epigrafe, come da
atto in data sei novembre 2014 (notificato alla destinataria a mezzo
posta il successivo giorno sette), affidato ad un solo articolato motivo,
cui ha resistito VERITAS S.p.a. mediante controricorso del 16 / 17
dicembre 2014), in seguito illustrato da memoria;
CONSIDERATO che:
con l’anzidetto motivo i ricorrenti hanno denunciato violazione e falsa
applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 40 – 43, e del D.P.R. n.
547 del 1955, artt. 377 – 379, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3,
nonché omesso esame in ordine ad alcuni aspetti della c.t.u., in relazione
all’art. 360 c.p.c., n. 5, censurando la parte dell’impugnata sentenza, che
non aveva esteso il diritto al risarcimento dei costi, sostenuti per il
lavaggio degli indumenti utilizzati da essi lavoratori sino al 31 luglio
2000, a tutti gli interessati, essendo stato limitato ai soli addetti alla
rete, che eseguivano interventi sulle tubazioni di cemento-amianto, e
agli addetti che utilizzavano indumenti ad alta visibilità e operavano al di
fuori del centro storico. Infatti, secondo i ricorrenti, in base alla succitata
normativa di cui al D.Lgs. n. 626 e al D.P.R. n. 547, qualsiasi indumento
utilizzato dai lavoratori, per il solo fatto di essere indossato duranteun’attività a rischio di contatto con agenti patogeni, dovrebbe costituire
DPI a prescindere dalle caratteristiche e dalla qualità di protezione
intrinseche dell’indumento stesso. La stessa Corte d’Appello aveva
chiesto al c.t.u. di valutare se le mansioni svolte fossero in grado di
esporre i lavoratori istanti ad un rischio specifico di compromissione della
salute, tenendo conto dell’abbigliamento di lavoro in considerazione delle
mansioni svolte. Il consulente incaricato, prof. B. , aveva risposto, quindi
al quesito, nel senso, secondo i ricorrenti, che essi risultavano esposti a
differenti e spesso contemporanei tipi di rischio riguardo ai quali avevano
in dotazione diversi strumenti di protezione e che con questi strumenti
avevano anche in dotazione le tute da lavoro.
Aveva, pertanto, errato la Corte territoriale, laddove aveva ritenuto che
l’abbigliamento da lavoro in dotazione alle diverse mansioni non era
destinato specificamente a proteggere la salute e la sicurezza dei
lavoratori, ma che aveva semplicemente lo scopo di proteggere da un
rischio generico d’imbrattamento. Ma proprio attraverso l’imbrattamento
i lavoratori correvano il più alto rischio di contrarre malattie: gli
indumenti, pertanto, sebbene non aventi la funzione specifica di
protezione della salute, di fatto la svolgevano perché erano gli unici
forniti dal datore di lavoro.
Dunque, necessariamente le tute da lavoro non potevano non avere
funzione protettiva, oltre a quella distintiva. Gli indumenti forniti, quindi,
potevano risultare non adeguati a fornire adeguata tutela, ma dovevano
essere senza dubbio considerati come attrezzature destinate ad essere
indossate e tenute dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o
più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il
lavoro. Non si trattava di un rischio ipotetico, dettato dalle particolari
tipologie di una giornata lavorativa, ma di costante quotidianità, stante il
contatto non solo con tubazioni di cemento / amianto, ma anche con
agenti imbrattanti patogeni di varia natura. Il contatto con agenti
imbrattanti, pertanto, secondo i ricorrenti, era costante e non limitato ai
momenti in cui venivano indossati i DPI. Era erroneo il ragionamento
volto a sostenere che un indumento, solo perché destinato a comune e
generica funzione protettiva, dovesse essere classificato come ordinario indumento da lavoro e perciò cessasse di costituire dispositivo di
protezione individuale, con conseguente onere di tenuta e lavaggio a
carico di parte datoriale. Diversamente opinando, si giungerebbe a
conclusioni inaccettabili, che vanificherebbero la portata della norma. Al
datore di lavoro, infatti, basterebbe soltanto fornire indumenti ordinari
affinché gli stessi, inidonei a fornire la protezione necessaria, possano
considerarsi esclusi dal novero dei dispositivi individuali di sicurezza, con
conseguente esonero del datore di lavoro dal connesso obbligo di
provvedere al lavaggio dei medesimi;
le anzidette doglianze vanno disattese in base alle seguenti ragioni,
tenuto conto soprattutto di quanto accertato e valutato, con adeguate
argomentazioni, dalla competente Corte di merito, peraltro senza errori
in punto di diritto, come pure riconosciuto in effetti anche a pagine 19 /
20 dello stesso ricorso (Correttamente la Corte d’Appello di Venezia ha
preso le mosse dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 40, il quale al comma 1
recita… Il giudice di secondo grado ha anche giustamente evidenziato
che il legislatore al comma 2 esclude esplicitamente dai dispositivi di
protezione individuale “gli indumenti… non specificamente destinati a
proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori” con la conseguente
necessità di accertare se l’abbigliamento da lavoro in dotazione fosse
destinato a proteggere i lavoratori da un rischio specifico di
compromissione della salute…avendo riguardo alle mansioni lavorative
svolte. Ciò in quanto, solo gli indumenti con tale finalità comportano
l’obbligo per il datore di lavoro di provvedere alla manutenzione e
all’igiene D.Lgs. n. 626 del 1994, ex art. 43… Sulla base di tali premesse
la Corte d’Appello ha disposto una c. t. u. volta ad accertare se le
mansioni svolte dai singoli lavoratori appellanti siano state tali da esporli
ad un rischio specifico di contaminazione…
La valutazione circa l’idoneità o meno degli indumenti a costituire
dispositivi di protezione sembra seguire il seguente iter logico:… Una
volta stabilito che per il tipo di mansione svolta il lavoratore è esposto ad
un rischio di contaminazione, la conseguenza naturale non può che
essere che l’indumento utilizzato nell’esecuzione della predetta mansione
deve essere considerato alla stregua di un dispositivo di protezione
individuale);peraltro, il ricorso appare carente nelle enunciazioni di quanto acquisito
in istruttoria (non risultano riprodotti i documenti e i verbali delle prove
assunte nei distinti procedimenti nn. 243/04 e 185/05, solo menzionati a
pag. 11 del ricorso, ed analogamente dicasi per il verbale di accordo
sindacale in data 21 aprile 1997, appena citato a pag. 13 dello stesso
ricorso per cassazione, parimenti riguardo ai motivi di appello, anch’essi
non riprodotti, ma sommariamente riassunti, laddove in effetti
analogamente non sono stati riportati i 32 capitoli di prova, volti a
dimostrare le mansioni svolte dai lavoratori ed i compiti che li ponevano
quotidianamente in contatto con gli agenti patogeni. Nemmeno è stata
integralmente riprodotta la relazione di c.t.u. disposta ed espletata in
appello, della quale si lamenta però anche l’omesso esame di alcuni
aspetti ex art. 360 c.p.c., n. 5), con conseguenti inammissibilità a norma
dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6;
inoltre, non risulta alcuna precisa confutazione in diritto circa eventuali
specifici errori in proposito commessi dalla Corte distrettuale
nell’esaminare la portata dell’anzidetta normativa, la cui violazione
appare dunque genericamente dedotta dai ricorrenti, i quali invero non
hanno precisato alcun errore d’interpretazione, così come nemmeno
alcuna palese irrazionalità o illogicità risulta specificamente denunciata
dai ricorrenti in ordine al ragionamento decisorio seguito dalla Corte di
merito, la quale anzi si è preoccupata di accertare fatti e mansioni con
apposita c.t.u., all’esito della quale le domande sono state
motivatamente e distintamente accolte, o rigettate, con riferimento alle
singole posizioni individuali ed in relazione ai diversi rispettivi periodi di
tempo (però sulla base e nei limiti degli elementi probatori offerti dalle
parti e perciò senza svolgere attività esplorative, cfr. pag. 6 della
sentenza qui impugnata, mentre nella successiva pagina 7 si precisava
che le mansioni svolte da ciascun appellante risultavano dal documento
n. 10 da loro già prodotto in primo grado e dal documento n. 5
depositato dalla società convenuta resistente, sicché il c.t.u. aveva
potuto individuare e analizzare le diverse posizioni lavorative in relazione
alle varie mansioni svolte da ogni attore, distinguendo gli operatori di
rete, gli addetti all’officina, quelli al magazzino ed ancora i lavoratori
degli impianti di acqua potabile.
Di conseguenza, il c.t.u. aveva svolto indagine esauriente con metodo
scientificamente corretto, giungendo a conclusioni che non erano state
“in alcun modo contestate dalle parti”, nel senso che l’abbigliamento da
lavoro in dotazione agli addetti alle diverse mansioni non era destinato a
proteggere specificamente la salute e la sicurezza dei lavoratori, avendo
semplicemente lo scopo di proteggere da un rischio generico di
imbrattamento, poiché non aveva alcuna capacità di protezione dagli
agenti chimici o biologici in caso di contaminazione accidentale, non
potendo costituire barriera efficace contro tali agenti pericolosi. Il
consulente, tuttavia, aveva evidenziato che facevano eccezione e
dovevano essere considerati alla stregua di DPI le tute utilizzate da
coloro che eseguivano interventi sulle tubazioni in cemento-amianto,
perciò dai lavorati che non operavano nel centro storico di Venezia -dove
non vi erano tubazioni di tale materiale- fino all’aprile 1992, quando
vennero fornite tute “usa e getta” per l’esecuzione di tali operazioni.
Il c.t.u., altresì, aveva evidenziato che facevano eccezione e dovevano,
quindi, essere considerati DPI gli indumenti ad alta visibilità forniti agli
addetti alla rete dal 1997, trattandosi di indumenti fosforescenti con il
compito specifico di proteggere dal rischio d’investimento stradale per gli
operanti sulla rete, ma con esclusione di quelli assegnati al centro storico
di Venezia, dove non vi era traffico veicolare, peraltro fino al settembre
dell’anno 2000, poiché in data 29-09-2000 -in base a quanto pure si
legge a pag. 9 della sentenza de qua- era stato concluso accordo di
lavaggio degli indumenti, come attestato dalla medesima società, di
guisa che la domanda doveva intendersi come riferita all’intero periodo
in cui era stato eseguito il lavaggio casalingo, sicché i predetti lavoratori
avevano diritto al risarcimento del danno per l’inadempimento,
contrattuale di parte datoriale, in ordine all’obbligo di provvedere alla
manutenzione dei DPI);
d’altro canto, alle pagine 16 e 17 del ricorso per cassazione, sono
riportate le seguenti conclusioni del c.t.u., che nemmeno appaiono
incompatibili, secondo la citata sentenza, con quanto sopra riferito: “le
mansioni svolte dagli appellanti,…, sono state tali da esporre i lavoratori
ad un rischio specifico di compromissione della salute ed in particolare proteggersi dai quali disponevano di specifici dispositivi di protezione
individuale. L’abbigliamento in dotazione (le tute da lavoro) non era
invece destinato specificamente a proteggere la salute e la sicurezza dei
lavoratori, avendo semplicemente lo scopo di proteggere da un rischio
generico di imbrattamento in quanto per sua natura non poteva
costituire una barriera efficace; fanno però eccezione al riguardo gli
indumenti supplementari ad alta visibilità forniti agli addetti a partire dal
1997… e le tute da lavoro utilizzate da coloro che eseguivano non nel
centro storico di Venezia interventi sulle tubazioni in cemento – amianto
(fino a che dall’aprile 1992 sono state fornite per l’esecuzione di Queste
operazioni “tute usa e getta”), che invece vanno considerati alla stregua
di dispositivi di protezione individuale”;
pertanto, non residuano in questa sede di legittimità, spazi d’intervento
per sindacare quanto accertato e valutato in punto di fatto dalla Corte di
merito, che peraltro non risulta aver omesso nel suo esame circostanze
utili e decisive, rilevanti nei sensi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5
(secondo il testo vigente, in relazione alla sentenza de qua risalente
all’anno 2014), con motivazione non inferiore al c.d. minimo
costituzionale (nei sensi indicati da Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054
del 2014 e successiva conforme giurisprudenza di questa S.C.), immune
inoltre da errori di diritto (in proposito v. in part. Cass. lav. n. 2625 del
5/2/2014, secondo cui in tema di tutela delle condizioni di igiene e
sicurezza dei luoghi di lavoro, non rientrano tra i dispositivi di protezione
individuale, previsti dalla L. 19 settembre 1994, n. 626, art. 40, le tute,
di stoffa o monouso, fornite dal datore di lavoro, quando esse, per la loro
consistenza, svolgono esclusivamente la funzione di preservare gli abiti
civili dalla ordinaria usura connessa all’espletamento dell’attività
lavorativa, e non anche quella – pur astrattamente configurabile- di
proteggere il lavoratore contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne
la sicurezza o la salute durante il lavoro, sicché rispetto ad esse non è
configurabile, in mancanza di specifiche previsioni contrattuali, un
obbligo a carico del datore di lavoro di continua fornitura e di sistematico
lavaggio);
il ricorso, dunque, va rigettato, con conseguente condanna dei soccombenti al rimborso delle relative spese, ricorrendo, inoltre, le
condizioni di legge per il versamento dell’ulteriore contributo unificato,
atteso l’esito del tutto negativo della proposta impugnazione.
P.Q.M.
la Corte RIGETTA il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle
relative spese, che liquida a favore della società controricorrente in
complessivi Euro 6000,00 per compensi professionali ed in Euro 200,00
per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei
ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art.
13.